sabato 31 dicembre 2011

Il classico post di fine anno

neanche poi tanto classico (da assumere a stomaco pieno prima della mezzanotte)



Siamo nelle ultime ore del 2011 e ho pensato: "ma sì, facciamolo questo postone di fine anno" per lamentarci il giusto e sperare l'insperabile.
Come ha detto una mia amica: "non sono i propositi che contano davvero, contano i bilanci". Io però per quest'anno voglio cambiare, niente spiaggia e niente mare. E niente bilanci da presa a male, niente controllo del passato, niente ansie senza finalità.
Mi ricordo che ho iniziato l'anno alla disperatissima ricerca di un oroscopo. Non di un oroscopo qualsiasi per il mio segno, ma di uno che parlasse veramente bene del mio segno e che potesse darmi positività.
Gli oroscopi servono un po' a questo, credo. Io ne leggo un po', scelgo il migliore ed inizio a crederci. Sì, lo so, è la classica profezia che si autoavvera che tante volte mi fa imparanoiare e mi regala ansia: è proprio per questo che ho scelto di usarla anche per regalarmi un po' di serenità.
Dicevo, l'oroscopo buono che trovai per quest'anno diceva letteralmente così:

"Tiburtina: Lavori in corso.
Dappertutto e su tutti i fronti.
Spostate le fermate degli autobus, spostati i capolinea, cambiati le tratte e i percorsi che portavano all’ingresso della metro. Chiusi alcuni negozi, altri trasferiti, aperta la libreria e chiuso il drugstore.
Cancro! Come si sta nella stazione Tiburtina? Male e bene contemporaneamente.
Attimi di schizofrenia. Fasi di esaltazione per il nuovo in arrivo si alternano a fasi di abbattimento per quello che si è raso al suolo.
Il 2010 è stato l’anno delle trasformazioni, dei progetti e dei lavori.
Consapevolezze e incoscienze.
Altri equilibri e altri assetti, sperimentando nuove geometrie e sposando nuove filosofie architettoniche come il feng shui.
Avete cominciato a tifare rivolta e, quindi: cambiamento.
Tiburtina fino ad oggi è stata la seconda stazione capitolina, sta lottando per diventare la prima.
Come voi state lottando per avere ciò che vi spetta.
La stazione del 2011 per voi sarà sempre Tiburtina, i lavori continueranno e voi sarete:
l’operaio, l’architetto, il geometra, l’ingegnere e l’80enne che osserva i lavori.
Buon lavoro. Passa la cera, leva la cera."


Io la cera l'ho tolta quasi tutta. Mi resta qualche ora per dare un'ultima lucidata ma sono quasi pronto.
Non so ancora se diventerò la prima stazione capitolina, la priorità della mia vita. Però so che sono un po' più operaio (ho spostato grandi carichi con il trasloco e mi son procurato quella simpatica ernia inguinale!). Sono anche un po' più architetto (ho ripensato la mia nuova vita nella mia casa nuova e ho riqualificato la mia stanza e i miei affetti) ma sono anche un pizzico geometra che sa stimare il valore delle persone, delle azioni e delle cose presenti nella sua vita.
Provo ad essere anche l'ingegnere di me stesso e sfrutto la scienza per applicarla alla tecnica e se la vita come l'ho pensata fin'ora non crolla o non collassa è anche un po' merito mio.
Sicuramente sono anche molto ottantenne che osserva. Osservo, osservo e ascolto e spesso ho imparato a far riposare i pensieri perché so che anche solo guardando e solo ascoltando posso imparare infinite cose. Lo so, anche se non sembra, è una risorsa grandissima che non mi lascerà mai a secco.

Nella nuova stazione Tiburtina, nel nuovo Andrea, si sta bene. Ci sono tante cose che miglioreranno con il tempo, per alcune ho bisogno di esperienza, per altre di entrare in funzione a pieno regime.
Vi invito a passare nella nuova stazione e nella mia nuova vita:

A mezzanotte non saluto solo un anno.
A mezzanotte c'è l'inaugurazione dell'Andrea che ho costruito fino ad oggi.

martedì 29 novembre 2011

Con tutti i segnali d'allarme che mi lanciano

non si esce vivi dall'adolescenza



Pronti? Via.
Vi scrivo da una nuova casa e sia chiaro a tutti che per arrivare qui dove sono ho dovuto sudare e mi sono fatto venire una bella ernia che mi ha avvelenato il cambiamento.
Va sempre così, quando miglioro qualcosa di me devo sempre passare dal "via", pagare pegno, prendere un imprevisto, pagare una tassa, espiare le mie colpe. Mi piace pensare che con quest'ernia io abbia pagato tutti i conti col mio passato e sia finita così, un po' alla buona, invece so benissimo che il karma tornerà a bussare alla mia porta e si prenderà ciò che vuole e io saprò sopportare quasi in silenzio senza lamentarmi troppo.
Mi lamento troppo poco. Non è che voglio impegnarmi a lamentarmi di più, è che - davvero - mi sto sfogando poco.
Sono tutti qui intorno a me e mi chiedono di fare, di dire, di dare, di saltare nel cerchio infuocato delle mie aspettative mentre io me ne starei al di qua del cerchio a leccarmi le ferite come un gatto, invece di fare il leone.
Poi per farmi dare una mossa e far entrare in circolo l'adrenalina iniziano ad urlarmi che sono in pericolo, che è tardi, che sto sbagliando tutto, che forse neanche so leggere la realtà e che le mie percezioni sono falsate, inspiegabilmente tutte falsate.
Io sto vivendo il mio viaggio senza metodo perché non lo so quello che c'è oltre il mio cammino e anche se sembro uno scriteriato, vorrei continuare a viaggiare. Invece nessuno mi fa godere questo viaggio e vivo perennemente tra sirene spiegate e silenzi imbarazzanti in cui devo solo vergognarmi e portare le mani al petto tre volte per ammettere tutte le mie colpe davanti a chi accende e spegne le sirene della mia vita un po' come e quando gli va.
La verità è che stanno arrivando molte scadenze e molti nodi al pettine e che io sto pensando davvero di mettere in scena l'ennesimo dramma per poter cambiare tutto senza essere additato come il responsabile dei miei mali e riniziare la mia vita nei panni di un altro Andrea che vorrei.
Loro vorrebbero che io saltassi giu da questo palazzo che mi sono costruito e che non sta cadendo, vorrebbero farmi buttare sul loro materasso di salvataggio e poi chiedermi di ringraziarli per tutto il resto del mio tempo per vedermi riniziare la mia vita nei panni dell'Andrea che vorrebbero.

La verità è che con tutti i segnali d'allarme che mi lanciano,
mi hanno insegnato a non preoccuparmi più.

domenica 4 settembre 2011

Ricordiamoci sempre dei pesci fuor d'acqua

illuminazione per idioti



"Ora, quel che conta è il trasloco a deciderlo. E non sai già più dove metterti." Canzone che sto ascoltando in loop tra un pacco e l'altro, scatoloni alti che si innalzano nel nulla come fossero grattacieli cresciuti nelle campagne, prima che arrivi tutto il resto della civiltà. Me ne sto andando, sto cambiando casa, traslocare è un po' come morire e poi rinascere.
Nell'ultima notte al Pigneto, dei ladri mi hanno svegliato e ho avuto paura. Paure, l'estate le regala a mani piene, regala frustrazioni e paure.
Ora che non sono nell'Urbe riesco, invece, a guardare con distacco a questi primi tre anni in questa città, faccio bilanci universitari, misuro il futuro e sbaglio, sbaglio di nuovo. Mi sento un po' a disagio, pesante, con le spalle pesanti come se sopra ci avessi messo un carico troppo grosso da sopportare ancora. Ogni tanto allora mi sveglio, apro gli occhi inorridendo e mi scrollo di dosso tutto, come un cane che cerca di liberarsi dall'acqua dopo essere stato in un pantano. Questo ultimo mese è stato davvero critico per me e quando alludo alla critica intendo l'etimo antico "krinein" cioè separare e distinguere. Ho separato e distinto tutte le cose della mia vita, ho distinto come stavo da come sto e come starò, ho inscatolato e sigillato tutto, come se avessi fatto un patto con me, un patto ormai definitivo.
Io ballo da solo, da solo finisco, da solo rinizio il viaggio.
Nel momento di cambiamento mi sono fatto prendere dalle ansie e a tratti anche dal panico ma adesso sono di nuovo pronto a guardarmi allo specchio, guardarmi fiero di me, di come faccio quello che riesco a fare, di come dimostro i miei ventiquattro anni e delle bandiere che porto sempre con me.
Adesso sono tanto deciso a riprendere in mano per l'ennesima volta la mia vita e a rimettermi in gioco senza riserve, a riniziare a costruire la mia casa in un altro posto e dopo cinque traslochi dovrei avere non dico imparato, ché non s'impara mai, ma almeno avere ormai un briciolo d'esperienza in grado di farmi sopravvivere a tutto.
Non importa più se ho avuto frustrazioni o rabbie da questa estate, se ho avuto situazioni spiacevoli e tormenti inutili. Ormai è tutto inutile, non conta nulla.
Sono tornato qui da mia madre, ci siamo parlati con non è mai successo, abbiamo scavato e trovato e riappianato. Non dobbiamo costruire un grattacielo, come quello di pacchi e scatoloni che era in camera mia prima del trasloco. Non ci servirà costruire un grattacielo nelle nostre campagne, con tutto il nulla intorno.
Ci basta una casetta in cui ripararci se non abbiamo altri posti del cuore nei quali rifugiarci.
Ci basta sapere che una baracca in cui stare, se tutto va male, c'è. Magari non la useremo mai.


È che in questa estate mi sono sentito quasi sempre un pesce fuor d'acqua e sono stato male.
Male finché non mi sono ricordato che i pesci fuor d'acqua divennero anfibi.

lunedì 18 luglio 2011

Come se cambiare fosse un dovere

oggi - per la gioia di tutti - parliamo di bisogni



Non è che volevo parlare dei cambiamenti perché ho compiuto ventiquattro anni. Non volevo neanche parlarne perché ho festeggiato il mio compleanno al Palio di Siena invece che al lago coi miei amici storici. Però anche nella storiella che v'ho raccontato nell'ultimo post, parlavo di cambiamenti. Certo, possono essere minimi, peggiorare la vita invece di migliorarla però sempre muovendosi.
In realtà mi interrogo spesso, chiedendomi se sia preferibile stare un po' fermi e poi andare avanti oppure non fermarsi mai, avanzare e poi miseramente retrocedere, conservando però la sensazione piuttosto piacevole del "fare comunque qualcosa". Chiacchiere a parte, sono cresciuto, sono cambiato, devo per forza di cose essere cambiato, cambiamo tutti, non è possibile che qualcuno non cambi. A meno che non decida, certo, di restare fermo pur di non retrocedere mai, neanche per sbaglio.
"Quest'anno l'agosto lo passo a Roma!" dice qualcuno "Non l'ho mai fatto perciò lo farò." conclude solenne.
"Il mio compleanno è sempre stato al mare o al lago. Quest'anno sarà a Siena perché sono nato lo stesso giorno del Palio." recitavo io. Poi, alla fine, è andata così e sono stato felicissimo. Probabilmente chi vuole passare agosto qui, così farà e potrà dire di essere soddisfatto e pure felice. Come se ritenessimo i cambiamenti qualcosa che dobbiamo a noi stessi, non qualcosa che meritiamo o vogliamo. Va così, come se cambiare fosse un dovere e non un bisogno.
Tanto, poi, quando qualcuno cambia qualcosa ha paura, è normale, ci dicono.
A me non lo dice nessuno, sia chiaro. Quello che so l'ho imparato grazie all'empatia.
Davvero pare essere la forza motrice per me, ma pure l'atto e la potenza. Io voglio così bene all'empatia che quasi direi che l'ultimo verso del Paradiso, forse forse, è sbagliato. Ma Dante pensava all'amore, che cosa posso rimproverargli? Solo che l'empatia non è amore. L'empatia c'è prima, genera amore che poi genera altra empatia, tant'è che mi chiedo se è davvero nata prima l'empatia o l'amore. Ad ogni modo, io riscriverei: "l'empatia che move il sole e l'altre stelle". Senza non saprei sopravvivere. Insieme a lei mi sento spesso condannato.
Ci vuole una storiella:

Una volta un brav'uomo aveva un pozzo, molto profondo. Quando si lamentava, i suoi pianti erano amplificati dalla profondità del pozzo. Quando gli altri stavano male ed urlavano di dolore, grazie al pozzo lui sentiva tutto così vicino, quasi come se provenisse da dentro di sè. Il pozzo collegava il brav'uomo all'altra gente, ai buoni e ai cattivi, incondizionatamente e senza fare differenze. Spesso, poi, quell'uomo rischiava di cadere nel pozzo per vedere se i rumori e i lamenti o le urla e le gioie che sentiva provenissero effettivamente da lì oppure da altrove. Il pozzo lo condannava a rischiare ogni volta. Eppure quando aveva sete e tutti cercavano disperati una goccia d'acqua, lui aveva il suo pozzo. Croce e delizia, limite strutturale e risorsa infinita.

Non vi voglio imbrogliare, ve lo dico: quell'uomo sono io e quel pozzo è empatia. Grazie al pozzo mi sento sempre salvo o salvabile, mai perso davvero o spacciato. So che finché non chiuderò il pozzo potrò pure avere paura ma avrò sempre qualcosa. Mi sento ricco.
Poi la paura resta, eh. Meno male, altrimenti sarebbe tutto quasi perfetto. La paura è sempre tanta, io poi sono un pauroso di prima classe. Quando mi sposto in città, la metro è l'unica che non mi fa paura, ma se devo salire in macchina e prendere la tangenziale est, lì sì che ho paura. Quando si corre, soprattutto nel primo tratto, quello ascetico, che dalla città sale verso l'alto, nella sopraelevata più alta di Roma.
Ho capito che l'unica soluzione per la paura è la privazione sensoriale, ma devo ancora lavorarci su e perfezionare:

Quando nella vita ho paura, chiudo gli occhi e fingo di essere su una giostra.
Subito dopo mi ricordo che ho paura anche delle giostre.

mercoledì 29 giugno 2011

La storia di colui che voleva uscire dalla gabbia

ci raccontiamo una favola per sopportare la cronaca




Stasera ho deciso di raccontarvi la favola dell'uomo che voleva uscire dalla gabbia.
Non è che in questa gabbia non ci stava per via delle sue dimensioni, non ci si stava stretti, anzi. Però le sbarre della gabbia, quelle erano brutte per davvero. Non sapendo come uscire dalla gabbia, quell'uomo iniziò - ogni sacrosanto giorno della sua vita - a dare un nome ad ogni cosa che aveva sotto mano e sott'occhio. Anche alle sbarre. La prima sbarra, quella che vedeva non appena girava la testa sul cuscino, la chiamò Stanchezza. La seconda, la prima che riusciva a toccare con mano sempre mentre era steso sul letto, iniziò a chiamarla Presente. Quella successiva la chiamò Ansia perché veniva dopo Presente. Dopo Ansia c'era Aspettativa e dopo Aspettativa veniva Frustrazione. Poi c'era il cancello con la serratura, che non riusciva mai ad aprire. E le sbarre del cancello si chiamavano Negazione, Avversità, Sfortuna, Sfiducia ed Incapacità. Le sbarre erano davvero tante, due lati della gabbia in muratura, due lati in sbarre e quella che era all'angolo la chiamava Paura. La gabbia che rovinava la vita a quest'uomo era davvero grande e la colpa era di tutte le sbarre ma Paura era quella portante, l'incubo d'ogni notte, tant'è che quell'uomo preferiva svegliarsi a metà del sonno con gli occhi sbarrati e vedere Stanchezza, piuttosto che avvertire Paura, in lontananza, ai piedi del letto.
Favolette a parte, un giorno quest'uomo scoprì che la sua mano poteva aprire la porta, a condizione di sacrificare un paio di dita nella serratura. Senza pensarci troppo, provò ed uscì. Perse un po' di sé ma si fece forza pensando che - in effetti - poteva essere questo il prezzo della libertà.
Passò del tempo e si rese conto di aver bisogno non di una gabbia ma almeno di un posto in cui sopravvivere e decise di andare a stare dove non avrebbe più potuto toccare Presente, visto il sacrificio appena pagato. Trovò un acquario, gli sembrò abbastanza comodo e pratico, gli ricordava un utero, era semplicemente un contenitore pieno di liquido in grado di attutire ogni ulteriore colpo che avrebbe potuto ricevere e quindi si tuffò.
Quando era dentro, si accorse di vedere tutto dai vetri, senza neanche più poter passare i suoi arti tra le sbarre, cercando l'illusione di libertà. Non solo - forse - non stava meglio di prima ma - in più - non poteva neanche dare nomi alle sbarre perché non erano più le sbarre a dividerlo dal mondo e ad impedirgli interazioni: erano state le sue scelte e i suoi desideri.
Non poteva più dare la colpa a Frustrazione o Ansia, non più dare responsabilità a Sfortuna e Stanchezza, nessuna Avversità.
Pare assai brusco da dire così ma la realtà è che continuò la sua vita lì, sguazzando nell'acqua, senza più possibili colpevoli da individuare e senza Paura a poterlo giustificare.



Questa era la storia di colui che voleva uscire dalla gabbia e che poi si tuffò nell'acquario.

mercoledì 8 giugno 2011

La rubrica dell'inquietudine

ogni tanto ansia, terrore ed inquietudine aggratis


"Hai parlato con tua sorella?"
"Sì, mamma, ho fatto da tramite"
Ho sognato di essere un angelo. No, non uno di quelli coi capelli biondi, asessuato, il vestito lungo da sera bianco e l'aureola o le ali. Ero me in persona, però facevo da messaggero.
Forse poche ore fa si è concluso il sogno più significativo della mia vita e lo dico consapevole del fatto che sempre più spesso mi pronuncio post-sogno e dico questa stessa identica cosa. Però stavolta è vero, ve lo posso giurare. La questione è la seguente: da giorni non penso ad altro che agli esami, ai doveri, alla responsabilità, alle scadenze, agli impegni e allora ecco che viene fuori il tema della morte, la cosa più imprevedibile che io possa immaginare. Ma c'è di più, perché qui si trattava di una sorta di conferenza stampa post mortem alla quale solo io potevo assistere e dopo la quale ho dovuto fare un resoconto condito di lacrime a tutti quanti gli altri.
Non ve lo riesco a raccontare, sono troppo inquieto, mi turba troppo, però sta a significare che devo rimettere al centro della mia vita l'amore e le passioni e staccare per l'ennesima volta la spina da tutto ciò che è impegno e responsabilità, dovere sentito moralmente. Ecco cosa succede a combattere le aspettative e a riprovarci per l'ennesima volta, ecco, succede questo. Che io devo andare a fare un esame e mi sveglio con questi pensieri, tra le lacrime, piangendo come un bambino. Voglio tornare a casa e riabbracciare tutti? Le turbe nell'urbe stanno invadendo i miei sogni? È questa la nuova dicotomia che si va delineando? Posso fare ancora qualcosa? Devo stare sereno? Devo stare turbato?
Non ho saputo dare un senso logico e dialettico a quello che volevo scrivervi, non me ne voglio dare la colpa. La smetto di ripassare e ripetere cose a mo' di mantra, mi preparo per fare l'esame ma oggi le cose improtanti per la mia vita sono altre: andare oltre, superare e riniziare ad abbracciare le persone che mi mancano.
Delle volte nell'Urbe si avverte l'assenza di ciò che aristotelicamente è definita "essenza".




domenica 5 giugno 2011

Ci nascondiamo come gli elefanti quando sono felici

riciclare l'amore per non impoverire il cuore



Domenica, primo pomeriggio e piove. Tutti sono al mare, voglio pensarlo vedendo il traffico che manca. Il paradosso è servito: al mare se piove. Come dire felicità in un momento doloroso, come andare più veloce nella corsa perché ci sono più ostacoli, come stare bene nel posto sbagliato.
Quando sono felice mi nascondo, sotto le lenzuola, non esco di casa, sto chiuso al riparo dal sole: ho paura che la felicità sbiadisca restando esposta alla luce e agli occhi indiscreti del mondo. Quando non sono felice, però, esco di corsa e cerco di incontrare più gente possibile: lo faccio per alleggerire il peso, smezzare il carico, è l'esposizione al rischio, ai dolori e alle piogge, ne vengo fuori pulito. Passa il torbido, scorre tutto e torno trasparente.
Così ci nascondiamo come gli elefanti quando sono felici; non ci dirigiamo da nessuna parte, non andiamo a morire in nessun cimitero, viviamo e ci nascondiamo felici.

Domenica, sempre pomeriggio e sempre piove. Dopo giorni rientro a casa mia, pensando a dove andrò a finire. Condanna servita: a casa se voglio essere altrove. Come dire che guardo le cose e non me ne entusiasmo? Sento il dolore in un momento felice, rallento in corsa man mano che gli ostacoli svaniscono, so quasi stare male nel posto giusto.
Quando sarò felice dove vorrò, non mi nasconderò, uscirò di casa, andrò ad espormi al sole: ho paura che ci vorrà ancora un po' di tempo, devo ancora finire tante cose qui, comprendere che direzione prenderanno, se potranno coincidere con la strada che voglio percorrere, se la coincidenza sarà fortunata. Ora non mi sento sereno, perciò esco di casa e cerco di osservare più cose possibili: mi dovrà servire per imparare a riciclare l'amore per le cose che ho quasi smesso di amare, perché non posso permettermi - qui, ora - di sprecare le occasioni, di scremare ciò che è da fare, di dimenticare l'amore e di impoverire il cuore.

Da oggi non mi nascondo, così potrò essere felice.

domenica 29 maggio 2011

Per quel po' che ho dormito t'ho sognato

finalmente si parla d'amore



Una volta, ricordo, ho scritto che era domenica mattina ed ero senza caffè e senza te.
Oggi il caffè non mi manca. A dire il vero sento che non mi sta mancando niente, in questo preciso momento. Ho un po' di tutto, sento il pienone, la marea, sono sopraffatto. Qui è affollato e io resto affossato.
Sto perdendo ancora una volta la mia innocenza e - mi suggeriscono - io sono il tipo di persona che ogni volta si sente come la prima volta. La colpa che provo ha la stessa intensità delle volte precedenti, però cerco la redenzione. L'innocenza rinascerà e sarà meglio. Mi ripeto a mo' di mantra.
Voi ce la fate ad essere spensierati? Ce la fate ad immaginare?
Andare al mare e trovare il brutto tempo, scovare granelli di sabbia nella doccia giorni dopo esser stati al mare, dover andare in farmacia a comprare una crema per le scottature, stare attenti al cellulare e al portafoglio mentre ci si allontana dall'ombrellone, non darsi pace se si fa il bagno senza aver terminato la digestione.
Vedo tutto adesso, lo capisco che non posso. Niente me lo impedisce davvero, sono io che sono fermo, aspettando venti migliori: che scaccino le nubi via lontano dal mare, che alzino in aria i granelli e li portino altrove, che rinfreschino le pelli provate soffiandoci addosso. Non posso tuffarmi ancora, è troppo presto, sento l'acqua ancora fredda e poi sto digerendo.
Me lo lasciate il tempo di digerire? Non ditemi che è una vita che sto metabolizzando e digerendo perché non è andata proprio così. Semplicemente non avevo mai smesso di mangiare, ingoiavo dolci e salati di continuo, mischiando tutto. Che poi, nonostante queste violenze, il mio è uno stomaco delicato eh, non vi passi mai per la mente di invitarmi a cena pepando e speziando tutto troppo perché vi scoprirei, lo verrei a sapere che state cercando di farmi del male con le cose che amo.
Le cose che amo sono quelle che mi rallentano. Capiamoci, non è una loro colpa. Le cose che amo io me le porto sempre con me, sulle spalle, nella pancia, in bocca, addosso. E carico di queste, mi sposto sui terreni percorribili. Vado a rilento perché pesano e - se per voi dovrei liberarmene - io dico che non serve proprio perché non mi ostacolano davvero, anzi mi permettono di girare in vita felice.
Le cose che amo sono le stesse che mi svegliano prima dei mie tempi, pulsano e suonano come fossero allarmi e mi ricordano cosa devo fare per armarmi: le cose che amo mi aiutano ad amarmi. Sono forze che lavorano per me, nodi pronti a resistere a tutto per poi sciogliersi solo se davvero mi hanno aiutato a leggere la realtà.
Le cose che ami ti fanno svegliare di soprassalto e non diminuiscono le tue turbe, però sono le stesse che poi ti fanno dire, tutto assonnato e ancora stanco:

per quel po' che ho dormito t'ho sognato.

martedì 24 maggio 2011

Forme di vita negligente

adesso mi metto anche a fare un bel θρήνος fuori stagione


Esistono altre forme di vita negligente?
La pasqua è passata da un pezzo ma non sono risorto, anzi sono pure tornato nelle mie terre natali, lasciando l'Urbe e - paradossalmente - avvicinandomi di più alle turbe.
La primavera è quasi stata triste perché io non ho saputo fermare a sorprendermi o forse ho iniziato troppo presto ad intuire l'estate.
Mi sono messo a contare il tempo ( che cosa da stolti! ) e ho capito che, tra me e il mondo, si tratti di quello atmosferico o di quello dimensionale, è sempre un problema di tempo. L'avevo anche scritto su un bel post-it, con l'etichetta "cose che prima o poi dovrò imparare ad urlare". Inutile dirvi che, per ovvie ragioni di tempo, ancora non ho imparato.
È che adesso so che gli anni e i mesi passano sempre, i minuti passano solo se li conti.
La prova che sulla terra e nell'universo intero esistono altre forme di vita negligente è che non mi hanno ancora contattato.

io sono tagliato
dal mondo
a pezzi grossolani
affettato.
senza radici sono
ché le mie sono bruciate,
senza radici resto
ché son stato mal trapiantato.
annaffiami
ed abbi cura di me
o
bruciami
e abbatti il mio tronco carbone.

venerdì 15 aprile 2011

Se volessimo un finale

dal momento che non so come iniziare parto dalla possibilità di un finale.


Dicono che sia la primavera ma in realtà è qualcosa di più. Sta squillando il telefono ma sono sereno perché sono quasi certo non sia mia madre che mi chiama per sabotare lo scorrere della realtà. Sotto il tavolino c'è del tartufo e le mie scarpe scivolano perché non è sottoterra dove dovrebbe essere. Non ho dormito a casa mia e ne sono felice ma i dolori che ho al collo per non aver dormito nel mio letto stanno qui a ricordarmi da dove vengo.
L'abitudine tutta umana di cercare i problemi anche quando non ci sono si manifesta così.
Dicono che sembri estate ma in realtà è qualcosa di più. Si può andare al mare ma senza tuffarsi perché l'acqua non bolle ancora e quindi non ci si può immergere per evadere dalla realtà. Si può restare in città ma non si è soli se non tra le folle. Non posso restare sveglio tutta la notte senza risentirne perché le giornate sono ancora dense e stanno qui a ricordarmi dove arriverò.
Il desiderio tutto umano di immaginare soluzioni anche quando non se ne hanno si avverte così.
Dicono che sia stato l'inverno ma in realtà è stato qualcosa di più. Mi ero solo fermato un attimo per coprirmi meglio indossando sciarpa e cappotto ma fermarmi non è stata una buona idea perché ho avvertito ancora di più il freddo. Non ho proprio potuto dormire perché se avessi chiuso gli occhi anche solo per un attimo avrei dormito sonni profondi e sarei morto assiderato. Questo sta a ricordarmi dove non posso permettermi di andare.
Il bisogno tutto umano di fermarsi per prendere fiato e riflettere è stato negato così.
Dicono sarà di nuovo autunno ma in realtà sarà qualcosa di più. Sarà prima dell'inverno e dopo l'estate, un momento antipodale, diametralmente opposto all'oggi. Non sarà semplicemente il futuro, no. Le cose saranno forse dove non dovrebbero essere, proprio come accade adesso ma in un altro modo. E preferirò pensare di mangiare perché vorrò sentirmi per l'ennesima volta riparato e in grado di affrontare tutto con le mie provviste e le mie riserve e se mi fermerò non sarà per dormire o riposarmi ma per pensare e mi chiederò

come mai non riusciamo a trapassare e perché amiamo soffermarci,
come mai vogliamo però trapassare invece di soffermarci,
se formattare il computer è come tagliare col passato
e se tagliare col passato significhi perdere duramente qualcosa.
tutto questo perché
vorrei uscire
e invece non mi muovo
vorrei vestirmi
e invece resto spoglio
vorrei scrivere
e invece non riesco a mettere punti.


Se volessimo un finale.

venerdì 11 marzo 2011

Avrebbe che tempo è

perché dopo un post sullo spazio è il momento del tempo.


E' notizia di oggi che qualcuno è arrivato sul mio blog scrivendo "avrebbe che tempo è" su google perciò ho pensato di facilitare le cose: da oggi in poi chi cerca troverà pure qualcosa che contenga queste precise parole.
Il condizionale è un modo verbale abbastanza comune nelle lingue europee. Viene usato soprattutto per indicare un evento o situazione che ha luogo solo se è soddisfatta una determinata condizione.
La possibilità che tempo è? La possibilità, ce lo rivela anche la lingua inglese, è il futuro. E' un sacrosanto diritto, sì, però è ancora più sacrosanto il diritto al presente.
Nell'ultimo mese ho avuto poca garanzia di presente. Qualcosa o qualcuno è sempre stato lì, rivendicando il suo spazio nella mia vita.
Ora non vorrei fare l'antipatico guastafeste della situazione ma mi chiedo come mai le persone si siano prese il diritto di rivendicare il proprio spazio nella mia vita chiedendomi in che parte del mondo mi trovassi invece di rivendicare il proprio tempo nella mia vita.
Tutti mi volevano nel posto in cui non ero ed io alla fine ho ceduto: dopo mesi sono tornato nella mia città natale dimenticando le turbe che ho nell'urbe e ricordandomi che anche le turbe nascono dal nostro cattivo rapporto con il tempo più che con lo spazio.
E' che ogni volta che torno nel mio spazio passato mi accorgo che è come tornare nel mio tempo passato. La mia vita è una passeggiata che ho iniziato ventitré anni fa e all'inizio della quale mi son fatto cadere qualcosa dalle mani. Le cose che ho perso per strada sono precipitate sul fondo di un pozzo e sento sempre più viva in me la necessità di recuperarle. Sapere cosa avevo con me all'inzio del percorso mi fa ricordare sempre più dove ero diretto e scendere nel pozzo a recuperare le parti di me non illuminate dalla luce è faticoso; per ogni metro che scendo incontro animaletti schifosi e mostri che mi spaventano, perdo capacità di vedere razionalmente e ogni volta che sono sul fondo con le parti recuperate mi ritrovo bruttissimo, provato e con le ragnatele e la polvere addosso.
La prima volta che sono sceso nel pozzo avevo paura di non riuscire ad uscirne vivo, la seconda volta che sono riemerso alla luce del giorno avevo paura di non riuscire più a tornare sul fondo senza impazzire, l'ultima volta che sono finito in fondo mi ci hanno buttato e mentre cadevo ed impattavo temevo i segni che questa violenza avrebbe lasciato sul mio volto. Tornato questa volta nel mondo dei vivi o del presente - che dir si voglia - ho compreso che ogni volta che mi allontano da tutti mi avvicino a tutto il resto e che

vorrei restare sveglio
( mentre dormo )
e inspirare
( mentre espiro )


La possibilità che tempo è?
Se cedessi ogni volta e se fossi in ogni posto in cui qualcuno vorrebbe che io stessi che tempo mi resterebbe da vivere?
( perdonatemi perchè o sono nullo o sono infinito )

sabato 22 gennaio 2011

Vedervi muovere m'avrebbe dato la sicurezza di essere nella realtà e non in un diorama

ovvero l'ennesima dimostrazione di quanto sia appetibile il patetismo.


E' davvero un sacco triste far colare i sentimenti attraverso il filtro anni '90 senza poter utilizzare il proprio codice di avviamento postale per fare i fichi come succedeva a Beverly Hills.
Sono un credulone - in giro lo sanno tutti - tant'è che per questa volta voglio davvero dare retta al mio oroscopo: dall'alto ( Rob Brezsny ) mi è stato detto chiaro e tondo di inventare un rituale in grado di esorcizzare completamente ogni mia sofferenza sentimentale per dar luogo alla catarsi. Non voglio iniziare a parlare dei tempi che corrono, del tempo che fa, del sentirmi vecchio, del dimostrare meno anni di quanti ne abbia, non sto scrivendo per ammazzare il tempo, no. Tutto quanto ha a che vedere con lo spazio, il tempo non c'entra niente una volta tanto. Sono i posti che contano, conta il mio corpo nelle foto di Madrid, le mie facce stanche negli aeroporti, gli occhi che trapassano i finestrini del treno mentre torno dai miei, il pianto ininterrotto davanti ad uno schermo mentre mia madre mi chiede come sto.
E' tutto passato, davvero e senza filtri.
Sono un credulone - in giro lo sanno tutti - tant'è che per questa volta voglio davvero chiedervi come andrà a finire: chi si prende cura di me mi ha detto chiaro e tondo che non ci sono più scuse in grado di sabotare completamente ogni mia necessità vitale per dar luogo alla catarsi. Non voglio iniziare a parlare dei tempi che si dilatano, del fatto che penso due ore indietro, che pranzo e ceno due ore avanti per immaginarmi altrove nello spazio, no. Il tempo non è un rimedio allo spazio, il tempo non c'entra mai niente. E' lo spazio che conta, contano i paesaggi che ricordo e quelli che immagino, lo skyline naturale della mia città natale, il vuoto che manca, gli spazi percorsi.
E' tutto in corso, forse, vi faccio sapere poi.
Sono un credulone - in giro lo sanno tutti - tant'è che per questa volta voglio davvero non dare retta a nessuno e dare una chance alle possibilità: chi vive dentro di me mi ha detto che

se c'è uno spazio che ci distanzia
non sappiamo se lo percorreremo mai
in un verso o nell'altro
se arriveremo a parlare 
come fossimo tutti e due insieme una strada
o se ci capiremo
grazie a segnali radio captati.


Tutto questo perché il movimento è il cambiamento di posizione di un corpo nello spazio in relazione al tempo. Non voglio iniziare a parlare del tempo e dello spazio ma vedervi muovere m'avrebbe dato la sicurezza di essere nella realtà e non in un diorama.

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